Dimissioni, periodo di prova e stagionali. I punti controversi del Collegato Lavoro

La Legge 13 dicembre 2024 n 203 ( cd. Collegato Lavoro ) è intervenuta su molteplici istituti lavoristici nel tentativo di chiarire dubbi interpretativi e/o integrare potenziali lacune normative della disciplina vigente.  

Sebbene l’obbiettivo degli interventi sia condivisibile, in diversi suoi punti il provvedimento lascia spazio a nuovi dubbi di natura applicativa e interpretativa sui quali si rendono necessari i chiarimenti. 

1. Il lavoro stagionale – Tra le norme più rilevanti del decreto, si segnala in primo luogo l’articolo 11 che è stato introdotto con l’obiettivo espresso di fornire un’interpretazione autentica con portata retroattiva dell’art 21 dlgs n. 81/2015 in materia di attività stagionali.

Si rammenta che l’articolo 21 dlgs n. 81/2015 prevede un trattamento di favore per i lavoratori stagionali assunti con contratto a tempo determinato, svincolandoli dalla maggior parte degli stringenti limiti normalmente previsti dalla disciplina sul contratto a termine tra cui l’individuazione di una causale giustificativa, il limite di durata massima di 24 mesi ed il c.d. “stop and go”, ovvero il rispetto di un intervallo di tempo minimo tra la cessazione di un rapporto a termine e la stipula del successivo.

Orbene, l’obiettivo che sembra essersi posto il Legislatore con l’introduzione della norma risulta l’ampliamento della platea delle attività stagionali e, dunque, del relativo regime derogatorio, mediante l’inclusione all’interno della nozione non solo delle attività indicate rigidamente dal  D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, ma anche di tutte le attività, previste dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, “organizzate per far fronte a intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi” o a “esigenze tecnico produttive e collegate a cicli stagionali”.

L’intervento normativo estendendo l’ambito di riferimento all’interno del quale ricondurre le attività stagionali sembra porsi, tuttavia, in evidente contrasto con l’orientamento fortemente restrittivo con cui la giurisprudenza legittimità ha, soprattutto di recente (cfr. Cass. 4 aprile 2023 n. 9243), tentato di restringere le sempre più numerose previsioni della contrattazione collettiva che avevano tentato di estendere il predetto ambito, ribadendo il carattere tassativo dell’elencazione del D.P.R. 

In attesa di valutare quale sarà la reazione della giurisprudenza a questa posizione estensiva del legislatore, emergono dubbi anche in ordine alla potenziale difformità dell’articolo 11 rispetto alle finalità della direttiva comunitaria in tema di contratto a termine n. 1999/70. 

A tal proposito si pone, in particolare, il dubbio che la facoltà ammessa dall’art. 11 di far fronte a generici aumenti di produttività usufruendo del regime derogatorio del lavoro stagionale si possa porre in contrasto con la finalità primaria della direttiva europea di reprimere l’abuso dello strumento della successione di contratti a tempo determinato.

Ciò soprattutto nei casi in cui le intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi o le esigenze tecnico produttive e collegate a cicli stagionali – che, secondo la norma, possono legittimare il ricorso al lavoro stagionale – coincidano con esigenze potenzialmente permanenti e durevoli, cui il datore di lavoro sia ammesso a far fronte senza dover rispettare i limiti ordinari previsti dalla disciplina del contratto a tempo determinato.

2. Il periodo di prova nel contratto a tempo determinato – Facendo seguito al recepimento della Direttiva comunitaria 2019/1152 in materia di “Condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea”, effettuata mediante il c.d. Decreto Trasparenza (Dlgs. 104/2022), l’articolo 13 del Collegato Lavoro è intervenuto espressamente ad identificare anche i criteri sulla base dei quali individuare la durata del patto prova apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato.

Il legislatore, uniformandosi al principio di proporzionalità tra durata del patto di prova, durata del contratto e mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego, ha previsto un parametro generale, comunque derogabile in melius dalla contrattazione collettiva, secondo il quale il periodo di prova deve essere equivalente ad un giorno di effettiva prestazione lavorativa per ogni 15 giorni di calendario.

La norma prevede, inoltre, un limite minimo di durata del periodo di prova pari a 2 giorni ed un limite massimo di 15 giorni per i rapporti a termine aventi durata non superiore a 6 mesi. Nel caso in cui il contratto a termine abbia durata superiore ai 6 mesi ma inferiore ai 12 mesi, il limite massimo di durata del periodo di prova non può essere superiore a 30 giorni.

La formulazione dell’articolo risulta in ogni caso, non del tutto chiara.

Se, invero, dal suo tenore letterale sembrerebbe evincersi l’espressa facoltà della contrattazione collettiva di derogare al limite legale di 1 giorno di effettiva prestazione in prova ogni 15 giorni di calendario, la norma non chiarisce cosa debba intendersi per “disposizione più favorevoli…” e dunque se, in caso di deroga da parte del contratto collettivo, debba trovare applicazione il criterio del favor prestatoris che consentirebbe anche un’estensione minore della prova a vantaggio del più rapido consolidamento del rapporto in capo al lavoratore o al contrario, se possa essere ritenuta ragionevolmente prevedibile una pattuizione contrattuale che incrementi dei giorni effettivi di prova da lavorare.

A ciò si aggiunga la peculiarità, forse riconducibile ad una svista del legislatore, del fatto che l’intervento risulti immotivatamente limitato ai soli contratti di durata inferiore a 12 mesi ma non a contratti di durata superiore con la conseguenza di creare regimi di prova parzialmente diversi e di non facile coordinamento in funzione della durata del contratto.

Tali dubbi potranno essere almeno in parte affrontati con l’auspicabile intervento delle parti sociali che, sulla base della formulazione della norma, sembrano espressamente sollecitate a disciplinare con il loro intervento i termini di durata del periodo di prova rendendolo più conforme alle esigenze ed aspettative delle parti nel singolo settore produttivo.

3. Dimissioni in caso di assenza ingiustificata del lavoratore – Il Collegato al lavoro è intervenuto anche in tema di dimissioni del lavoratore con la prospettiva di colmare una lacuna applicativa riscontrata nel caso non infrequente in cui il lavoratore abbandoni il posto di lavoro senza rispettare la procedura telematica obbligatoria imposta dal dlgs. 151/2015.

Nei casi in cui, infatti, il lavoratore si fosse assentato per un periodo prolungato dal posto di lavoro, la norma, vigente sino ad oggi, non prevedeva alcun tipo di rimedio costringendo il datore di lavoro ad assumere l’iniziativa di interrompere il rapporto licenziando il lavoratore assente.

Tale necessità rappresentava certamente un onere per l’azienda che provvedendo a licenziamento era costretta ad accollarsi il costo del ticket dovuto in caso di recesso agevolando, implicitamente, la condotta omissiva del lavoratore che, una volta licenziato, poteva anche usufruire della Naspi.

Il  Collegato lavoro è intervenuto integrando la predetta fattispecie prevedendo che, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale o, in mancanza di tale previsione contrattuale, per un periodo superiore a 15 giorni il datore di lavoro può a dare comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro al fine di ottenere l’effetto di vedere automaticamente risolto il rapporto del lavoro del lavoratore assente come se lo stesso avesse assunto l’iniziativa di presentare le dimissioni.

La norma risponde all’esigenza, manifestata anche dalla giurisprudenza, di valorizzare i comportamenti concludenti del lavoratore in caso di prolungata ed immotivata assenza aggirando in questo modo l’obbligo di rispettare la procedura telematica di dimissioni.

L’intervento dell’Ispettorato può rappresentare una garanzia per entrambe le parti sul presupposto che ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, lo stesso organo può verificare la veridicità e le condizioni dell’assenza del lavoratore cui comunque viene lasciata la facoltà di dimostrare che la mancata comunicazione dei motivi della sua assenza è giustificata da causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro.

Anche questa norma solleva non pochi dubbi, in primo luogo, perché la stessa può essere foriera di pratiche che rischiano di compromettere la posizione dei lavoratori che si sono legittimamente assentati dal posto di lavoro in reazione ad una condotta illecita del datore di lavoro (eccezione di inadempimento ex articolo 1460 c.c.).

Ulteriore dubbio emerge in ordine alle modalità con cui l’Ispettorato nazionale del lavoro potrà assolvere al compito affidatogli dal legislatore, modalità in ordine alle quali saranno necessari opportuni chiarimenti ministeriali.

Decisivo sarà anche il ruolo della contrattazione collettiva, che potrà definire il termine decorso il quale un’assenza potrà ritenersi ingiustificata prevedendo disposizioni di miglior favore rispetto a quelle legali.

4.  La conciliazione in via telematica

La facoltà di svolgere le conciliazioni in modalità telematica e/o collegamento audiovisivo è stata introdotta nel corso della pandemia legata all’avvento del Covid-19 (art. 12-bis, comma 2, del decreto-legge n. 76/2020), per le procedure amministrative o conciliative di competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

L’art. 20, comma 4 del Collegato lavoro, in attesa dell’adozione di un decreto interministeriale di attuazione, conferma tale facoltà per le procedure di conciliazione in materia di lavoro svolte presso commissioni di conciliazione istituite presso la Direzione provinciale del lavoro o attuate secondo con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Come noto, la conciliazione in materia di lavoro risulta valida e conforme all’art. 2113, comma 4 c.c. e deve avvenire in una sede – individuata tassativamente tra quelle indicate dalla disposizione codicistica (aule giudiziarie, ispettorato del lavoro, sedi sindacali stabilite dal contratto collettivo, commissioni di certificazione) – idonea a garantire la maturazione e la manifestazione del libero convincimento del lavoratore.

La prima esigenza che sorge innanzi alla possibilità di svolgere la procedura conciliativa anche da remoto è proprio quella di garantire ugualmente al lavoratore uno spazio neutro in cui lo stesso sia svincolato da qualsiasi forma di pressione psicologica.

In questo senso, essenziale sarà attendere le linee guida che dovranno essere fornite a livello ministeriale per capire quali cautele dovranno essere osservate.

La norma desta, in ogni caso, uno specifico dubbio applicativo. Se, infatti, la modalità telematica è pacificamente riconosciuta per procedimenti di conciliazione in materia di lavoro previsti dagli articoli 410, 411 e 412-ter del codice di procedura civile, la norma nulla dice in merito agli accordi di demansionamento di cui all’art. 2103, comma 6 c.c., che devono essere sottoscritti presso le sedi di cui all’art. 2113, comma 4 c.c., tra le quali rientrano le sedi degli artt. 410, 411, 412-ter c.p.c. e le commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del d.lgs. n. 276/2003. 

Resta, allora, il dubbio: anche questi accordi potranno continuare ad essere siglati in non pochi casi ricorrendo ad una procedura telematica? 

5. I contratti misti – L’art. 17 del Collegato lavoro introduce una previsione specificamente orientata a consentire l’esercizio di un’attività di lavoro dipendente part-time e di un’attività di lavoro autonomo a partita Iva consentendo di conservare, in quest’ultimo caso, i vantaggi riconosciuti dal regime forfettario introdotto dall’art. 1, legge 190/2014.

La novella consente, in particolare, di derogare al limite previsto dall’art. 1 comma 57, lett. d-bis, legge 190/2014, che impedisce l’adesione al regime fiscale forfettario agevolato alle persone fisiche che esercitano la propria attività lavorativa, in via prevalente, nei confronti di datori di lavoro con i quali sono in corso rapporti di lavoro o sono intercorsi rapporti di lavoro nei due precedenti periodi d’imposta, facendo salva la sola eccezione dei soggetti che iniziano una nuova attività dopo aver svolto il periodo di pratica obbligatoria ai fini dell’esercizio di arti o professioni.

La facoltà di svolgere le due attività lavorative – autonoma e subordinata – è consentita o a persone fisiche iscritte ad albi o registri professionali che svolgono attività libero-professionale o di collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409, n. 3 c.p.c ovvero a persone fisiche non iscritte ad albi e registri professionali ma che esercitano attività di lavoro autonomo nei casi e alle condizioni previste dalla contrattazione collettiva di prossimità (l’art. 8 D.L. 138/2011 impone l’individuazione di un obiettivo di scopo indispensabile per la legittimità del contratto che va stipulato con le rappresentanze sindacali presenti in azienda).

L’attività di lavoro dipendente è esercitabile unicamente alle dipendenze di aziende con almeno 250 dipendenti (calcolati alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione) ed il lavoratore deve essere assunto in forza di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tempo parziale con orario di lavoro compreso tra 40 e 50%.

Inoltre, tra gli altri requisiti prescritti per usufruire del predetto regime, la norma richiede che il lavoratore elegga domicilio professionale diverso rispetto al soggetto con cui viene stipulato il contratto di lavoro subordinato.

Inoltre, il contratto di lavoro autonomo deve essere stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato e deve essere obbligatoriamente certificato da uno degli organi preposti alla certificazione dei contratti (tra cui la commissione di certificazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, le commissioni istituite presso le Università e le Fondazioni universitarie autorizzate, le commissioni di certificazione presso gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro, le commissioni istituite presso gli Enti bilaterali previsti dai CCNL, ecc.).

La norma richiede, infine, che il rapporto di lavoro autonomo e il rapporto di lavoro subordinato abbiano un diverso oggetto, le prestazioni devono esplicarsi con modalità differenti ed in orari e giornate di lavoro differenti.

La predetta disciplina, che recepisce disposizioni già previste dalla contrattazione collettiva del settore bancario, si pone certamente l’obiettivo di favorire una maggiore flessibilità lavorativa agevolando oltre alla riduzione di costi per l’azienda, si pensi al caso in cui quest’ultima non può sostenere il costo del dipendente full time, anche finalità incentivanti per i lavoratori chiamati a differenziare modalità e contenuti dell’attività svolta nei confronti del medesimo committente/imprenditore con la prospettiva non solo di gestire in parte autonomamente i propri tempi di vita/lavoro ma anche di perseguire obiettivi di maggiore guadagno.

La disciplina solleva, in ogni caso, anche numerose perplessità, in particolare, in ordine alla possibilità di coordinare a livello operativo due rapporti di lavoro che, per espressa previsione legislativa non possono in alcun modo sovrapporsi. Si pensi al coordinamento tra l’orario di lavoro nell’esercizio delle mansioni di lavoro dipendente e i tempi di espletamento della prestazione di lavoro autonomo.

 

 

Fonte: Lavorosì

 

 

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