Nomadismo digitale: una nuova disposizione e tanti problemi

Il nomadismo digitale, così come il remote working, è un fenomeno particolarmente sviluppatosi durante la pandemia, con la proposta di un nuovo modello organizzativo di lavoro disancorato dallo svolgimento della prestazione lavorativa dalla postazione fissa in azienda (v. “ Primo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia (2021)” e “Secondo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia” – Marzo 2022, realizzati dall’Associazione Italiana Nomadi Digitali). 

Due anni fa il Decreto Sostegni-ter (Legge 28 marzo 2022 n. 25) ha dato un riconoscimento giuridico alla categoria definendo nomadi digitali quei lavoratori che, per l’espletamento delle loro mansioni, necessitano esclusivamente di un computer portatile e di una connessione internet e che, quindi, possono svolgere la prestazione in qualsiasi luogo. 

Posto che in ambito europeo vige il principio della libera circolazione dei lavoratori, con la previsione contenuta nell’art. 6-quinques, il Decreto sostegni ter affronta il fenomeno dal punto di vista dei cittadini extra UE che intendano svolgere la propria prestazione lavorativa in Italia pur in mancanza di qualsiasi collegamento tra l’Italia, da un lato, ed i soggetti e/o l’oggetto del contratto di lavoro, dall’altro. 

Si pensi al caso di un cittadino UK, dipendente da una società con sede in UK, il cui contratto di lavoro è regolato dalla legge inglese, il quale intenda lavorare da remoto dall’Italia per motivi legati a proprie esigenze personali (magari legate alle bellezze dell’Italia). 

Prima della nuova previsione legislativa, sulla base delle disposizioni del decreto flussi (D.Lgs. n. 286/1998), tale cittadino inglese non avrebbe potuto fare ingresso in Italia per motivi di lavoro, considerato che l’ottenimento del relativo visto di ingresso presupponeva che il datore di lavoro avesse sede in Italia, ma avrebbe dovuto ottenere un visto per soggiorni di breve durata (per un periodo massimo di 90 giorni) dichiarando l’ingresso per motivi di turismo. 

Il citato art. 6-quinquies del Decreto sostegni-ter – integrando l’art. 27 D.Lgs. n. 286/1998, al primo comma, con l’introduzione della lett. q-bis nonché con il comma 1-sexies – inserisce i nomadi digitali ed i remote workers nell’ambito delle categorie di lavoratori stranieri i quali possono entrare nel nostro Paese al di fuori dei limiti delle quote di ingresso previsti, con una procedura di ingresso per lavoro agevolata che non necessita del nulla osta al lavoro e che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per un periodo non superiore ad un anno a condizione che il titolare abbia la disponibilità di un’assicurazione sanitaria, a copertura di tutti i rischi nel territorio nazionale, e che siano rispettate tutte le disposizioni di carattere fiscale e contributivo vigenti. 

La norma definisce i nomadi digitali ed i remote workers come cittadini di un Paese terzo che svolgono attività lavorativa altamente qualificata attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di lavorare da remoto, in via autonoma ovvero per un’impresa anche non residente nel territorio dello Stato italiano.

La possibilità di ingresso in Italia per motivi di lavoro è, così, possibile a prescindere dalla residenza del datore di lavoro in Italia seguendo la procedura definita dal Decreto 29 febbraio 2024 pubblicato in Gazzetta il 4 aprile 2024 ( Nomadi digitali e lavoratori da remoto extra ue, nuove procedure di rilascio del permesso di soggiorno ) . 

Seppur la nuova normativa è destinata a produrre effetti principalmente sui lavoratori extraeuropei in termini di adempimenti burocratici richiesti in sede di ingresso nel Paese, senz’altro essa fornisce elementi di riflessione nell’ipotesi in cui il nomade digitale o remote worker sia un lavoratore italiano dipendente da una società italiana che intenda svolgere le proprie mansioni da remoto in un altro Paese. 

Al di là delle problematiche connesse ai visti di ingresso, detto nuovo modello organizzativo del lavoro ha implicazioni sotto il profilo della normativa fiscale, contributiva e contrattuale applicabile, di cui il datore di lavoro deve essere consapevole prima di autorizzare un proprio dipendente a lavorare da remoto in un Paese straniero, potendo determinare un aggravio di costi. 

Nomadismo digitale degli Italiani all’estero e normativa fiscale 

Il trattamento fiscale previsto in linea generale nel nostro ordinamento (per cui è soggetto a tassazione in Italia chi ivi risiede per più di 183 giorni) può subire modifiche per effetto delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. 

Secondo il modello di convenzione OCSE, in caso di residenza in uno Stato contraente e svolgimento dell’attività lavorativa in altro Stato contraente, vige il principio di territorialità, per cui le remunerazioni percepite come corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili nello Stato in cui l’attività è svolta. 

Il luogo di svolgimento dell’attività è quello in cui il lavoratore fisicamente si trova nel momento in cui presta la propria attività lavorativa. 

Tale regola non trova applicazione – e, dunque, riemerge il principio della residenza – laddove (i) il lavoratore soggiorna nell’altro Stato per meno di 180 giorni; (ii) la remunerazione è corrisposta da datore di lavoro non residente nell’altro Stato; (iii) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato. 

Occorre altresì avere presente che, ai fini della residenza fiscale, rileva il “centro degli interessi vitali”. 

Ne deriva che un “nomade digitale” potrebbe avere la residenza fiscale in Italia, soggiornare in Italia per oltre 183 giorni ma meno di 183 giorni in ciascun Paese estero ed il centro degli interessi vitali in un ulteriore Stato. 

Situazioni di fatto di cui l’azienda italiana datrice di lavoro dovrebbe necessariamente avere contezza ai fini di una corretta applicazione della normativa.

Si tratta comunque di un argomento complesso e particolarmente delicato, tanto da aver generato in questi anni più di un orientamento da parte dell’ Agenzia delle Entrate sia con riguardo alla posizione dei lavoratori frontalieri in smart working, sia con riferimento all’assoggettamento a tassazione dei redditi prodotti in Italia dal lavoratore da remoto che soggiorni in Italia per periodi superiori a 183 giorni nell’arco dell’anno ( cfr. ADE – Circ. n. 25 del 18.08.2023 : Profili fiscali del lavoro da remoto – I riflessi su impatriati e frontalieri )

Nomadismo digitale degli Italiani all’estero e disciplina previdenziale

In ambito previdenziale, ai fini della determinazione della normativa applicabile occorre distinguere a seconda che la fattispecie coinvolga Paesi appartenenti all’UE, non appartenenti all’UE che abbiano stipulato convenzioni con l’Italia o extra UE che non abbiano stipulato alcuna convenzione. 

In caso di lavoratore proveniente da un Paese Ue o da un Paese che ha stipulato con l’Italia una convenzione in materia di sicurezza sociale, trova applicazione il principio della unicità della legislazione applicabile che viene individuata con la regola della territorialità e, dunque, del luogo in cui l’attività lavorativa è svolta (Reg. 883/2004). 

In caso di attività lavorativa svolta in più paesi, come potrebbe configurarsi nell’ipotesi del remote working, allora dovrebbe trovare applicazione la legge dello Stato di residenza del lavoratore o della legge dello Stato in cui il datore di lavoro ha la propria sede legale. 

La disciplina previdenziale dei lavoratori operanti in Paesi extra UE non convenzionati è contenuta nel D.L. 31 Luglio 1987 n. 317-L. conv. 3 ottobre 1987, n. 398 (“Norme in materia di tutela dei lavoratori italiani operanti nei Paesi extracomunitari e di rivalutazione delle pensioni erogate dai fondi speciali gestiti dall’INPS”).

Sulla base di tale normativa, i lavoratori operanti all’estero in Paesi extra comunitari, con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale, sono obbligatoriamente iscritti ai regimi previdenziali e assicurativi previsti in Italia (art. 1). 

I contributi previdenziali previsti per il finanziamento dei suddetti regimi sono calcolati su retribuzioni convenzionali, fissate con decreto del Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell’economia, e determinate con riferimento e comunque in misura non inferiore ai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei. 

Nomadismo digitale degli Italiani all’estero e legge applicabile al contratto di lavoro

Per ciò che concerne la legge applicabile al rapporto di lavoro con elementi di internazionalità, il Regolamento Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Reg. 593/2008) detta una disciplina che risponde all’esigenza di tutelare il lavoratore quale parte debole del rapporto. 

L’art. 8 del Regolamento stabilisce che il contratto di lavoro è disciplinato dalla legge scelta dalle parti e, in mancanza di scelta, 

  1. dalla legge del paese nel quale (o, in mancanza, a partire dal quale) il lavoratore, in esecuzione del contratto svolge abitualmente il suo lavoro;
  2. in via alternativa, dalla legge del paese nel quale si trova la sede che ha assunto il lavoratore;
  3. Tuttavia, se dall’insieme delle circostanze, risulta che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese, si applica la legge di tale diverso Paese.

La scelta delle parti sulla legge applicabile al contratto di lavoro non vale ad escludere l’applicabilità dei suddetti criteri “residuali”. 

Il primo comma dell’art. 8 stabilisce, infatti, che la scelta della legge applicabile “non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta”. 

Si pone, dunque, il dubbio se lo svolgimento della prestazione da remoto presso uno Stato estero sia in grado di creare con il contratto di lavoro un collegamento più stretto rispetto al luogo abituale della prestazione in esecuzione del contratto e alla sede di assunzione, tale da determinare l’applicazione delle norme imperative vigenti nel Paese in cui ci si trova il lavoratore da remoto o, di volta in volta, il nomade digitale. 

Al momento, sul punto, non sono state emanate indicazioni specifiche. 

Si ritiene che – ai fini del collegamento più stretto – rilevi la durata della permanenza all’estero e la pregnanza della smaterializzazione del lavoro rispetto alla postazione fissa. 

Appare ragionevole a riguardo distinguere a seconda che il lavoro dall’estero sia prestato per un lungo periodo da un unico luogo ovvero per brevi periodi da una pluralità di luoghi. 

Le scarne valutazioni in materia di telelavoro internazionali effettuate dalla Commissione europea nel “Libro verde sulla trasformazione in strumento comunitario della convenzione di Roma del 1980” del 14 gennaio 2003 – che, seppur con qualche dubbio, sottolineano la sussistenza di un collegamento tra contratto di lavoro e luogo di esecuzione abituale – non sembrano mutuabili in relazione alla fattispecie del nomadismo digitale, che si caratterizza proprio per l’assenza dell’abitualità di un luogo di svolgimento della prestazione lavorativa. 

Imporre al datore di lavoro l’applicazione delle norme imperative di ciascun paese in cui il lavoratore nomade decida di spostarsi risulta un eccessivo aggravio, anche in termini di procedure organizzative volte a conoscere la posizione del lavoratore (sul punto, sembrano peraltro profilarsi criticità sotto il profilo della privacy e del controllo a distanza dei lavoratori ex art. 4 Stat. Lav.) e di obblighi informativi sulle discipline vigenti nei singoli Paesi in cui potenzialmente il lavoratore può recarsi. 

 

A cura di: Silvia Lucantoni 

 

 

Fonte: Lavorosì – https://www.lavorosi.it/rapporti-di-lavoro/tipologie-contrattuali/il-nomadismo-digitale-una-nuova-disposizione-e-tanti-problemi/

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