Il decreto legislativo 125 del 6 settembre 2024, che ha recepito la direttiva UE 2022/2464 del 14 dicembre 2022, richiede alle imprese una serie di informazioni riguardanti i tre aspetti della sostenibilità, quella sociale, ambientale e relativa alla governance
I contenuti del decreto sono alquanto stringati e non contengono nessuna novità né specificazione rispetto alla direttiva; in alcuni punti anzi omettono di esplicitare il riferimento a contenuti della stessa che sono importanti per stabilire i doveri di comunicazione delle imprese comprese nell’ambito della normativa.
Nell’indicare le informazioni di sostenibilità dovute dalle imprese il riferimento è fatto, in modo irrituale, non alle norme della direttiva in trasposizione, come dovrebbe essere, bensì direttamente agli European sustainability reporting standards (ESRS) contenuti negli allegati al decreto delegato del 31 luglio 2023 (2023/2772).
Questi allegati specificano in dettaglio diversi contenuti della rendicontazione di sostenibilità dovuta dalle imprese: quelli ambientali, quelli relativi alla forza lavoro delle imprese e delle loro catene di attività, quelli di governance, e anche quelli riguardanti le comunità interessate, i consumatori e utilizzatori finali.
Ho già rilevato in un primo commento alla direttiva CSRD (Guida lavoro, maggio 2024) che la esecuzione degli obblighi in essa previsti, ora recepiti dal decreto 125, richiederà un notevole impegno organizzativo e conoscitivo alle nostre imprese, per la ricerca e per la documentazione della grande quantità di dati richiesti, il cui reperimento può essere particolarmente difficile, specie con riguardo ai dati delle imprese appartenenti alle catene di fornitura.
Sono convinto che questi doveri di informazione sono di grande importanza, non solo perché garantiscono la trasparenza delle scelte aziendali, ma anche perché il loro pieno adempimento può fornire agli operatori e ai decisori pubblici una conoscenza senza precedenti delle condizioni economiche, occupazionali e ambientali del paese, in quanto non tutte queste informazioni sono disponibili nelle fonti pubbliche esistenti o non lo sono in modalità comparabili e con continuità storica.
L’importanza è ulteriormente accresciuta dal fatto che, secondo la direttiva, le informazioni devono essere accompagnate dalla individuazione dei principali rischi connessi alle questioni di sostenibilità, degli impatti effettivi e potenziali delle attività aziendali, dalle procedure di Due diligence in linea con gli obblighi della Unione e dalle azioni eventualmente intraprese dall’ impresa per prevenire o attenuare tali impatti negativi o porvi rimedio (art. 19 bis, n.2, lett f).
Mi riservo di approfondire le implicazioni della direttiva per il nostro ordinamento, anche tenendo conto dei contenuti della direttiva Due diligence (1760/ 2024) che integra per vari aspetti la responsabilità sociale e ambientale delle imprese.
Qui vorrei dare qualche indicazione su alcuni punti, non specificati dal decreto 125, ma rilevanti per gli adempimenti richiesti alle nostre imprese.
Gli obblighi di informazione riguardanti i business partners: la “catena di attività” – Un primo punto riguarda la norma della direttiva secondo cui le informazioni di sostenibilità devono riguardare non solo le imprese comprese nell’ ambito di applicazione della stessa, ma anche le loro catene di attività (questa terminologia è usata nelle norme più recenti al posto di quella “catena di valore”).
Il concetto è definito in generale dalle norme sulle definizioni poste in premessa alle direttive. La più dettagliata è la lett. g, art. 3, della direttiva Due diligence che comprende:
- attività di un partner commerciale a monte di una società inerenti alla produzione di beni o alla prestazione di servizi da parte di tale società, compresi la progettazione, l’estrazione, l’approvvigionamento, la produzione, il trasporto, l’immagazzinamento e la fornitura di materie prime, prodotti o parti di prodotti, lo sviluppo del prodotto o del servizio;
- attività di un partner commerciale a valle di una società, inerenti alla distribuzione, al trasporto e all’ immagazzinamento del prodotto di tale società, laddove i partner commerciali svolgano tali attività per la società o a nome della società, a eccezione delle distribuzione del prodotto, del trasporto e dell’ immagazzinamento del prodotto soggetto al controllo delle esportazioni a norma del regolamento UE 2021/821 o a controlli delle esportazioni relativi ad armi munizioni o materiali bellici, una volta che l’ esportazione del prodotto sia stata autorizzata. .
Per quanto riguarda la direttiva in esame la definizione è specificata nel ESRS 1, all. 2 del regolamento e comprende:
i) tutte le attività e le relazioni connesse al modello aziendale dell’impresa e al contesto esterno in cui opera, comprende le attività, le risorse e le relazioni che l’impresa utilizza e su cui fa affidamento per creare i suoi prodotti o servizi, dalla concezione fino alla consegna, al consumo o al fine vita. Tali attività, risorse e relazioni comprendono:
- quelle che fanno parte delle operazioni proprie della impresa come le risorse umane;
- quelle dei canali di approvvigionamento, commercializzazione e distribuzione, come acquisti di materiali e servizi o la vendita e la consegna di prodotti e servizi;
- il contesto finanziario geografico, geopolitico e normativo in cui la impresa opera;
- la catena include attori a monte (ad es. fornitori) e a valle (ad es. distributori e clienti).
Il decreto di recepimento 125/ 2024 fa riferimento alla “catena del valore” della società in varie disposizioni della normativa, ma senza indicazioni specifiche, per cui devono ritenersi applicabili le regole e gli standard ESRS.
Le premesse alla direttiva Due diligence, nel paragrafo intitolato alla proporzionalità, precisano che si deve avere riguardo a rapporti di affari (business partners) consolidati e duraturi. .
Tale precisazione sembra rispondere alla ratio della normativa che richiede le informazioni necessarie per consentire ai fruitori di comprendere i rischi e le opportunità “rilevanti” delle attività aziendali (vedi ESRS 1,5,1).
Ne consegue che la estensione dei doveri informativi non deve riguardare qualsiasi entità della supply chain, ma solo quei soggetti legati alla impresa da un legame dotato di un minimo di formalità e durata e il cui contributo abbia una rilevanza significativa per la complessiva attività della impresa e per il suo impatto sui diritti e sull’ ambiente (in tal senso vedi Osservatorio Assonime e anche il concetto di business relationship in OECD, Guidelines for multinational enterprises, n. 17).
Una tale conclusione è avvalorata anche dal principio di materialità che regola il processo di rendicontazione.
Questo principio ha una specificazione nei confronti delle informazioni di difficile reperimento riguardo alla catena di valore, per le quali il punto 4 del nuovo art 29 ter introduce il cd. value chain cap. Secondo tale norma i principi di rendicontazione tengono conto delle difficoltà che le imprese possono incontrare nella raccolta di queste informazioni, specie presso soggetti non tenuti agli obblighi di rendicontazione e presso i fornitori dei mercati e delle economie emergenti.
In tale evenienza la impresa può stimare le informazioni da comunicare sulla propria catena di valore utilizzando anche dati medi di settore o altre proxy. (ESRS 1,5.2; Osservatorio Assonime, cit. p. 7; S. Petruzzelli, Lo standard europeo di rendicontazione della sostenibilità: il focus sulla value chain, Assolombarda, 21 marzo 2023).
Il decreto di recepimento 125 specifica che per i primi tre esercizi finanziari oggetti di rendicontazione, qualora non siano disponibili tutte le informazioni relative alla catena di valore, la società include nella rendicontazione una spiegazione degli sforzi compiuti per ottenere tali informazioni, i motivi per cui non è stato possibile ottenerle e i suoi piani per ottenerle in futuro (art. 3, n.4).
L’estensione dell’ambito della rendicontazione di sostenibilità ora riportato ha sollevato non poche resistenze; ma ha motivazioni fondate nella evoluzione delle strutture ed elle attività delle imprese che hanno adottato sempre più spesso esternalizzazioni nella forma delle supply chains.
L’ importanza di queste catene è tale che il perseguimento degli obiettivi del legislatore europeo di responsabilizzare le imprese verso il mercato con obblighi di informazione e di trasparenza ha implicato la necessità di allargare gli obblighi di rendicontazione a tutte quelle attività che sono rilevanti per definire la attività e la influenza delle imprese.
I tipi di attività compresi nelle supply chaines – Ma al riguardo si richiede un’altra precisazione riguardante il concetto di supply chain.
Dalla normativa in esame, come in altre disposizioni europee recenti tale concetto viene definito in termini di tipo di attività e di loro posizionamento rispetto alla impresa, senza riferimento agli strumenti giuridici con cui tali attività si rapportano alla impresa. Tali strumenti possono quindi essere tutti quelli normalmente utilizzati dagli ordinamenti nazionali, come vendita, affitto somministrazione.
E’ sorto il dubbio se fra questi possano essere compresi anche i contratti di appalto e subappalto, perché le norme della direttiva non ne fanno menzione. Peraltro nel considerando 69 della direttiva si precisa che, sebbene le PMI non ricadano nell’ ambito di applicazione della direttiva, possono essere incluse in quanto appaltatori o subappaltatori delle società che vi rientrino.
In ogni caso, alla stregua della formulazione del concetto di supply chain utilizzato dalla direttiva non c’è motivo di escludere dall’ ambito della rendicontazione le attività degli appaltatori che siano business partner delle imprese come sopra definiti.
La esperienza conferma che questo tipo di rapporti e di attività presenta non pochi rischi per il rispetto dei diritti sociali e dell’ ambiente, per cui esentare le imprese dal dovere di dare informazioni al riguardo e di fare le correlate valutazioni dei rischi comporterebbe una riduzione delle conoscenze utili a valutare i comportamenti di sostenibilità delle imprese.
Gli stakeholder e il loro coinvolgimento – Un’ altra precisazione riguarda i destinatari della rendicontazione di sostenibilità che secondo la direttiva comprende tutti gli stakeholder.
Questa destinazione ampia è coerente con la finalità della normativa e corrisponde alla idea che la impresa ha obiettivi e responsabilità non solo nei confronti degli azionisti, ma di tutti i soggetti e le comunità che sono interessati alle sue attività e che risentono della sua influenza.
Il considerando 9 della direttiva menziona i più importanti di questi stakeholders, indicando i motivi di tale destinazione: gli investitori vanno informati al fine di conoscere i rischi e le opportunità per le loro scelte delle decisioni aziendali; gli attori della società civile e le parti sociali, perché si aspettano che le imprese siano più responsabili nel loro impatto su persone e ambiente; i business partners, compresi i clienti, affinché possano basarsi sulle informazioni di sostenibilità per conoscere l’impatto delle scelte aziendali sulla catena di valore; e ancora sono menzionate le agenzie per l’ ambiente e le auditing firms.
Le indicazioni dell’ ESRS 1 individuano in modo ancora più ampio i portatori di interesse da coinvolgere nel processo di valutazione di materialità, così indicandoli: a) quelli i cui interessi sono o potrebbero essere influenzati dai rapporti commerciali diretti o indiretti lungo la catena del valore; b) gli utilizzatori delle informazioni di sostenibilità quali investitori, prestatori e debitori, istituzioni di credito e assicurazioni, business partners, sindacati e parti sociali, organizzazioni civili, NGO, governi e istituzioni, analisti e accademici (ESRS 1,3.1).
Le stesse indicazioni specificano che il coinvolgimento di tali stakeholders è essenziale nella Due diligence process.
Inoltre, in ossequio al principio di trasparenza, la relazione di sostenibilità deve essere resa gratuitamente disponibile al pubblico tramite i registri centrali, di commercio o delle imprese (considerando 20).
Il medesimo considerando sottolinea che una buona rendicontazione è il presupposto per migliorare il dialogo tra impresa e stakeholders e può aiutare le imprese a migliorare la propria reputazione.
Il decreto italiano di recepimento specifica che la relazione di sostenibilità deve essere pubblicata secondo le modalità previste dagli artt. 2429 e 2435 del Codice Civile.
La direttiva stabilisce che Il management aziendale ha un obbligo specifico di informare i rappresentanti dei lavoratori al livello appropriato, obbligo che include il dovere di discutere con questi sui dati rilevanti e sul modo di ottenere e verificare le informazioni: art. 19, a. 5 (obbligo del management della impresa); art. 29, a 6 (obbligo dell’ impresa madre).
Il considerando 52 precisa che tale obbligo implica la instaurazione di un dialogo e uno scambio di opinioni in modo da consentire ai rappresentanti di esprimere il proprio parere.
Le opinioni dei rappresentanti eventualmente espresse sono comunicate al Consiglio di amministrazione o a quello di sorveglianza della società.
Il decreto italiano di recepimento indica la necessità di includere nella relazione di sostenibilità le modalità in cui il modello e le strategie della impresa tengono conto delle istanze degli stakeholders (art. 3, n.4).
Più specificamente richiede che siano previste modalità di informazione dei rappresentanti dei lavoratori ai livelli appropriati secondo le indicazioni della direttiva, precisando che tali modalità devono essere svolte nel rispetto delle norme e degli accordi collettivi applicabili.
Si tratta di una precisazione utile ,perché la contrattazione collettiva, sia nazionale sia aziendale, contiene spesso clausole che integrano modalità, contenuti e obblighi di informazione sulle attività delle imprese rilevanti per la sostenibilità sociale e ambientale; di queste clausole l’azienda dovrà dare conto, in quanto applicabili, cioè se l’ azienda vi è vincolata.
Fonte: Lavorosì – https://www.lavorosi.it/notizie/il-decreto-sulla-rendicontazione-di-sostenibilita-per-le-imprese/